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Alessandra Gasparini. Il rosso è vendicativo

Testo critico a cura di Alessandra Redaelli

Alessandra Gasparini possiede un mondo, dentro, così imponente e così gremito di suggestioni e di immagini che quando sgorga sulla tela vi si distende in narrazioni complesse, impossibili a cogliersi al primo sguardo. Dipinti dalla costruzione lenta, impeccabili nella concatenazione dei nessi logici e tuttavia pregni di un’istintualità che non passa inosservata, di una creatività selvaggia, che è poi l’ingrediente dell’incanto. “Un continuo baratto tra la mia mente e il quadro”, così l’artista definisce il processo creativo. Con un primo progetto mentale e un primo abbozzo volutamente grossolano, poco dettagliato, perché paradossalmente è proprio il dettaglio qui a determinare lo spazio del gesto e della libertà, dell’improvvisazione, del pennello che va seguendo
una sua musica interna. E questo lasciarsi andare alla volontà della pittura è tale da costringerla, qualche volta, ad aggiungere un pezzo di tela, sotto al quadro iniziato. Perché la sua narrazione deve andare avanti e non si può arrestare. Del resto Gasparini appare proprio così: istinto e ragione, Sturm und Drang e Encyclopédie. Opposti che si incontrano sulle tele nel dialogo serrato tra la minuzia chirurgica del dettaglio e il gesto astratto, libero, che spesso Gasparini riserva ai bordi. Perché lei si è innamorata del disegno da piccola, ma poi ha saputo andare oltre, scegliendo di approfondire l’astrazione per entrare dentro al colore, ma soprattutto per imparare a destrutturare la realtà, per scompaginare la visione e trovare così la propria voce autentica.

Protagonisti della sua pittura sono i bambini. Mai scelti a caso, belli di una bellezza niente affatto leziosa ma piuttosto aspra, ruvida; capaci di sguardi che ci costringono a interrogarci. Bambini che non hanno ancora perso la capacità di credere in sé tipica dell’infanzia, il senso di onnipotenza che inchioda l’adulto alla relatività delle proprie convinzioni. Non ancora umani, come li definisce l’artista, certamente non ancora addomesticati dalla maschera dell’adultità. Bambine, per lo più, ma non necessariamente. Magari il nostro cervello vuole definirle tali perché indossano abiti gonfi, come la Damarmadillo che troneggia su strati di gonne bianche e che da quegli stessi strati è schiacciata. Ma non mi pare il dato più importante. Ci interessa di più il modo in cui queste creature rideterminano lo spazio, come la Guglielmina di La pittura è viva e prende il caffè, dove la protagonista, prozia dell’artista che emerge ieratica da un ritratto di famiglia, spezza le catene e da quel ritratto fugge, frantumandone la superficie con due mani eleganti, ingioiellate, a reggere da un lato una tazzina di caffè e dall’altro un ventaglio.

E’ l’irrompere dell’impossibile, dell’improbabile, della magia. E su tutto una sistematica
distribuzione di oggetti che riconosciamo come nostri, patrimonio di memorie condivise che agiscono nel cuore e nella testa come inneschi: le sedie con lo schienale di legno scolpito, la seduta in paglia intrecciata, il copriletto con quello specifico decoro floreale che tutti, almeno una volta, abbiamo scovato nella casa di qualche parente, la palla da salto che si faceva girare intorno alla caviglia, i fiori di loto essiccati o il pavimento di graniglia minuta su cui abbiamo giocato bambini, a pancia in giù, seguendo i percorsi della fantasia.

Pur muovendosi all’interno di un alfabeto con cui alla fine, dipinto dopo dipinto, possiamo sentirci di familiarizzare, Gasparini non è mai prevedibile, gestendo ogni pezzo come un unicum e scegliendo se occuparne lo spazio fino all’ultimo centimetro o se lasciare ampie zone d’aria – che non sono mai vuoto. In Madame Cornac, la gonna della ragazza è un’ipertrofica fioritura scarlatta che invade ogni angolo della tela e che più che abito si rivela una cavalcatura, e infatti, sotto, emergono i dettagli di un muso di elefante, di un occhio di cavallo e di un coccodrillo. 

Una diversa gestione dello spazio caratterizza invece lavori come Amina Irebla Oleic (anima, alberi e cielo scritti al contrario), dove la figura – un’adolescente vestita di un abito dall’apparenza friabile e con un braccio bloccato contro le spine di un fico d’India – galleggia dentro una foresta impenetrabile, illuminata da bagliori liquidi, mentre ai suoi piedi un cielo nebuloso, capovolto, ospita tre alberi spogli e solitari. O anche Quando sarò grande, dove la futura pittrice fluttua su una tavolozza verso il proprio destino come su un disco volante.

A volte l’architettura compositiva suggerisce vuoti che in realtà si rivelano pienissimi, come nella sinfonia di bianchi della Lettera, dove la bambina più che seduta sul divano appare inscritta nella forma sinuosa della sua bordatura in legno dorato, ieratica santa di fissità bizantina che forse tra poco scomparirà al nostro sguardo, proprio come la lettera – oramai trasparente – che scivola al suo fianco. Quel movimento immobile di caduta è un pezzo di magia in un dipinto che nella sua semplicità appare complessissimo. Basta vedere come il pennello delimita la gamba della ragazzina, con il piede definito fino all’ultimo dettaglio e il polpaccio che invece è soltanto tratto leggero di bianco. Solo a un ulteriore sguardo si percepisce, celato sotto il vestito, uno spigolo di carta celeste. E allora viene il dubbio che la lettera sia lì: nascosta come il più inviolabile dei segreti.

Ed è pienissimo – saturo addirittura – lo spazio vuoto del dipinto Avevo una sedia. E’ uno di quelli per i quali Gasparini si è divertita a proseguire la narrazione aggiungendo un pezzo della storia dietro la tela intelaiata. Quando lo fa, dipinge questi frammenti di racconto grossolanamente, volutamente abbozzati eppure densi di dettagli. E’ lo spazio della libertà, lo sberleffo alla limitatezza dei confini della tela. Qui, alle spalle del dipinto, una ragazzina nuda appare rannicchiata su una seduta che si intuisce in ferro battuto, meditabonda su come usare il grande
barattolo di pittura rossa che tiene accanto a sé. Lì vicino la scritta: “Quando il rosso chiama è meglio assecondarlo. Il rosso è vendicativo”. La ragazzina non se lo è fatto dire due volte: il dipinto è un mare di rosso che ingoia ogni cosa e da cui emerge solo lo schienale della sedia originale, ridotto ora a un intrico di foglie. E poi ecco il viso, l’unica zona del dipinto realizzata a olio sulla vellutata opacità dell’acrilico. Solo in un secondo momento si coglie la consistenza rigida dell’abito e si percepisce la sproporzione dei piedi: enormi, luciferini, capaci di trasformare di colpo quella bambina in un elfo, in una creatura fatata.

Se c’è una cosa che Gasparini ha saputo mantenere dell’infanzia è la potenza dello stupore. La capacità di incantarsi davanti alla meravigliosa incomprensibilità del reale. Ed è questo, alla fine,
che ci racconta. Pennellata dopo pennellata. Catturandoci nei suoi labirinti.

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“Io spesso e volentieri nei quadri mi sento una romanziera su tela. Non è banale, perché in effetti io parto da un’idea di quadro che ho precisa in me, poi il quadro prende un po’ la sua vita e mi suggerisce un racconto.”

Attraverso le parole dell’artista entriamo nel mondo di Alessandra Gasparini, un viaggio tra simbologia e racconti di vita passata, oggi racchiusi nei suoi quadri e dietro le tele, nel vero senso del termine: talvolta, le sue storie prendono una via inaspettata e proseguono anche su altri frammenti di quadro, o sul retro della  tela stessa.